1. ROMA 1864.

Roma, nel periodo in cui giunse Ibsen, era già una Mecca per gli Scandinavi. I cittadini del Nord trovavano  Roma un ambiente sorprendentemente accogliente, dove era possibile respirare liberamente.

Negli anni ’60 erano così numerosi che una pianta della città indicava il loro abituale luogo di soggiorno “quartiere degli stranieri” tra via del Tritone e la chiesa di S.Trinità dei Monti. Fu il tempo in cui il “Circolo Scandinavo per artisti e scienziati a Roma” ebbe la sua età più fiorente.

Un amico di Ibsen, Lorenz Dietrichson, così commenta il primo giorno del drammaturgo a Roma:

Una domenica mattina, di buon’ora, squillò il campanello alla porta del Circolo Scandinavo nel palazzo Correa a Roma, costruito sui resti del Mausoleo di Augusto e dove io abitavo nella mia qualità di bibliotecario del Circolo. Ero ancora a letto, ma ne saltai subito fuori e, mezzo nudo, urlai come al solito:” Chi è?” attraverso la porta chiusa e nel contempo tiravo il chiavistello di cui, alla maniera italiana, era provvista la nostra porta. Da fuori udii la voce del Console Bravo che nel suo imperfetto danese rispondeva:”Apra, ho qui un suo caro amico!” – “Ma carissimo Signor Console, io mi trovo nel più perfetto negligè!” – “Dio-Satana, apra stesso, siamo solo uomini!” disse il vecchio tedesco con la sua consueta e ben scelta bestemmia. Io aprii. Vidi Bravo e dietro a lui – Henrik Ibsen. Mi vestii in fretta mentre Ibsen in sala di lettura scorreva i giornali norvegesi. Bravo poi si congedò e noi due uscimmo a fare un bel giro in città. Era domenica, il tempo magnifico e a S. Pietro c’era messa solenne; ci dirigemmo quindi da quella parte. Ma nel corso della giornata visitammo una buona parte della città, sia il Foro che il Gianicolo – e quando, giunta la sera, ci andammo a sedere in una trattoria con giardino a Trastevere, proprio dirimpetto al fiume e abitualmente frequentata da noi, ebbene, avevamo ormai trascorso una magnifica giornata. Non solo perchè avevamo camminato così a lungo tra tante cose grandiose e imponenti, riempiendoci gli occhi di una miriade di impressioni, ma anche e soprattutto forse, perchè essendo nel pieno vigore della nostra giovinezza, sentivamo e ci figuravamo davanti a noi un periodo ricco e bello che avremmo goduto insieme, benchè, è ovvio, nessuno di noi due immaginava come sarebbe rimasto vivo quel giorno per lui. Era un uomo tutto diverso da quello che tre anni prima avevo salutato a Christiania, chiuso in sé e amaro. Certamente era profondamente scosso dagli ultimi avvenimenti del nord, la disgraziata guerra danese, e fu con indignazione bruciante che si espresse sulla politica traditrice condotta dal nostro paese contro la Danimarca, e disse con quale rabbia compressa aveva assistito all’ingresso dei Prussiani a Berlino con le truppe che tornavano dalla guerra di Schlesvig. Ma adesso era come se, d’un tratto, giunto nella bell’Italia e nella Roma eterna, si fosse gettato alle spalle tutte queste cose e volesse vivere intensamente solo per la sua poesia…E quando il sole tramontò e avvertimmo la mite aria della sera romana spirare tra le foglie del giardino, dove sedevamo con una foglietta di vino dei castelli davanti a noi sotto i tralci di una pergola – mentre le trasteverine uscivano dalle case per godere il freschetto del fiume che scorreva proprio sotto il muro del giardino – mentre un piccolo nano improvvisava sul suo mandolino sotto i tralci della vite che sporgevano sull’acqua – mentre venivano accese le lampade sui tavolini del giardino e le luci di Palazzo Farnese, sull’ opposta sponda, e altre luci, nella vecchia, grande città si specchiavano nel fiume, ecco, noi, per un breve istante, fummo due uomini felici, convinti che la vita era bella e che i suoi bei frutti ci attendevano nel futuro.

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